TWICE UPON A TIME, recensione di Dalek Oba

Partirei dalla fine. Da un Dottore disposto a morire pur di non cambiare, che si trova a mettere in discussione la sua scelta, ma che non decide fino all’ultimo, e fino a quando non rimane da solo. Ha però ancora tempo di lasciarsi un memorandum perché, se cambiare a questo punto è inevitabile, non lo è dimenticare chi si è stati prima. Mai crudele, mai codardo… e mai mangiare pere! Un Peter Capaldi assolutamente perfetto ci regala il suo ultimo monologo, con echi del passato: il suo imperativo in The Doctor Falls, “Doctor, let it go!”, qui diventa “Doctor, I let you go”.

C’è una sorta di costante tendenza al ritorno, in Twice Upon a Time, come quando devi lasciare una festa, ma prima passi a salutare tutti gli altri invitati. E a ben vedere sono in molti ad andarsene: Peter Capaldi, Steven Moffat, Mark Gatiss, Murray Gold, Matt Lucas, Pearl Mackie, Rachel Talalay… e sembra che ognuno di loro voglia rendere il proprio addio memorabile.
C’è il ritorno alle origini della serie, a quella prima rigenerazione che all’epoca era stata rivoluzionaria. Tornano i companion, sotto forma di ricordi di vetro, eppure più reali che mai. Torna Mark Gatiss, che dopo esser stato nemico, comparsa e doppiatore, assurge all’ultimissimo momento allo status di companion. Torna perfino Rusty, l’unico Dalek buono (anche se non un buon Dalek). Soprattutto però tornano le idee e le tematiche care a Moffat, di cui questo episodio può essere considerato una sorta di summa.

Twice Upon a Time ha una trama piuttosto semplice e lineare, e va benissimo così. La storia del Dodicesimo Dottore si è già conclusa in The Doctor Falls e tutti, spettatori e companion insieme, gli hanno già detto addio. Quest’ultimo episodio serve in sostanza per permettere al Dottore di dire addio a se stesso. C’è quindi tempo (e spazio) per le riflessioni, per tentare di fare il punto sulla vita e sulla morte.
Perché Moffat aveva cominciato la sua avventura in Doctor Who con un episodio in cui, alla fine, e per una volta soltanto, tutti quanti vivevano, nessuno escluso. E dodici anni dopo ci regala un altro inno alla vita, dicendoci paradossalmente che tutti quanti muoiono. Ma non è necessariamente un male, e non è necessariamente la fine.
Nel mondo di Doctor Who – nel mondo di Moffat – puoi morire (anche più volte), ma la tua storia non termina così, non finché ci sarà qualcuno a ricordarti. E se in un luogo di morte per eccellenza, la terra di nessuno tra due trincee nemiche, può esplodere la vita, allora anche il Dottore può ritrovare la speranza e accettare che la sua morte non deve essere per forza la fine di tutto.
Lo stesso Moffat, appena un anno fa ma in un’altra serie, scriveva: “Your own death is something that happens to everyone else. Your life is not your own, keep your hands off it”. Miliardi di persone e Universi interi dipendono dal Dottore, che salvi un pianeta, o regali più tempo a un gruppo di coloni su un’astronave, o dia speranza a un soldato della Prima Guerra Mondiale. Un’altra vita non ucciderà nessuno, tranne lui. Eppure…

“Everything ends and it’s always sad, but everything begins again, too. And that’s always happy. Be happy”. Il Dottore muore, ma poi rigenera. E sorride. Oh, brilliant.