KNOCK KNOCK, recensione di Saki
Si ritorna nel nostro presente e su un argomento già affrontato in questa stagione: il rifiuto di accettare la morte e il distacco, che ha come risultato ulteriore sofferenza. Ma se in “Smile” la tragedia era stato il frutto di un errore di interpretazione da parte di intelligenze artificiali, “Knock Knock” si affida ad un linguaggio più intimo e semplice.
Mike Bartlett, già autore di numerose opere teatrali e radiodrammi, insieme al regista gioca bene sulla classica atmosfera da casa infestata, dove il termine è più che mai letterale: le malaugurate vittime sono preda di voraci insetti alieni simili a onischi. La loro presenza si manifesta con inquietanti scricchiolii, porte e finestre sprangate, in un crescendo claustrofobico che non manca di strappare un brivido – specialmente in una serie in cui il legno è un po’ la kriptonite, se non per il Dottore, per il suo cacciavite sonico. Ma, come spesso accade, la vera “maledizione” dell’edificio ha una natura del tutto umana: bloccato da settant’anni in un’ossessione che gli ha impedito di crescere e aprirsi al mondo, il padrone di casa ha tenuto in vita il suo affetto più caro ad un altissimo prezzo.
Riecheggia l’ammonimento già presente in episodi come “Father’s Day”, all’alba della nuova serie, o “Hell Bent”; se non lasciamo andare ciò che è ormai perduto, le conseguenze possono risultare esponenziali rispetto al dolore che proviamo. E anche se nella realtà nessuna creatura verrà a cibarsi del paradosso temporale che abbiamo creato, la mera sopravvivenza è solo una pallida imitazione della vita – è un’anima prigioniera in un corpo mutato in legno. Tra i mille dibattiti di questi anni sui temi del testamento biologico e dell’eutanasia, non avevo mai assistito ad una rappresentazione tanto poetica e toccante. E c’è ancora chi crede che la fantascienza parli davvero di alieni e navi spaziali…