THE LIE OF THE LAND, recensione di Saki

La parte finale di una trilogia dovrebbe essere un’esplosione di adrenalina o viceversa una quieta conclusione. The Lie of the Land è entrambe le cose eppure, ad una prima visione, non convince del tutto. Giuro, non sono una persona che cerca l’originalità a tutti i costi: ho adorato l’atmosfera orwelliana con tutta me stessa, ma quando la risoluzione della vicenda ha gridato “Akhaten” a pieni polmoni, un sopracciglio mi si è alzato per riflesso. È vero, le storie di Clara e Bill non sono identiche: la prima trova forza dal ricordo di una madre che è stata parte integrante nella costruzione della sua personalità, dei suoi sogni e aspirazioni; Bill invece non l’ha mai conosciuta e la inventa, la idealizza, a partire da una manciata di fotografie… un dono del Dottore, tra l’altro. Ma il ruolo che riveste la figura materna è lo stesso nei due episodi, e mi spinge ad una riflessione estemporanea: ma esattamente, cos’aveva Russell T. Davies contro le madri, da appioppare ad ognuna delle companion principali una genitrice insopportabile? E Moffat… perché invece le trasfigura in angeli idolatrati?

Ho letto commenti sul ruolo di Missy nella vicenda, su come il suo terribile suggerimento per sconfiggere i Monks fosse superfluo, perché il Dottore già sapeva che una soluzione simile avrebbe funzionato; su come ella non sarebbe altro che un diavoletto nella sua coscienza, contrapposto al “grillo parlante” Nardole (messaggero della “fata” River, aggiungo per completezza). D’altronde Bill accusa il Dottore proprio di questo, perciò dev’essere la verità. Giusto?
Reduce dalla lettura di un romanzo ambientato durante l’era McCoy, in cui il Dottore sacrifica un essere umano per sconfiggere i nemici, potrei facilmente cedere a questa visione oscura e pessimistica. Invece scelgo di fare un distinguo: il Dodicesimo Dottore sa ingannare e manovrare, persino trollare, ma non è il Settimo – proprio come Bill non è Ace McShane. Piuttosto, sta tornando lentamente a sentirsi e comportarsi come il Decimo: un Dottore legato visceralmente al Maestro, questo suo simile folle e crudele che però, per lui, sarà sempre e comunque degno di una chance. Quello che ha scelto come compagna di strada una ragazza semplice ma colma di curiosità e intuito. Quello che farebbe di tutto per scongiurare il sacrificio di qualcuno che ama, e glielo si può impedire soltanto incatenandolo. Di nuovo, River Song, sei davvero dovunque!
Dicevo, Bill non è Ace; lei non prova rancore per l’inganno del Dottore, nonostante avesse riposto tutta la sua fiducia in lui – anzi, proprio per questo: sicura che lui avesse un piano per salvare l’umanità dal dominio dei Monks, non ha lasciato vincere il proprio orgoglio quando ha scoperto di essere una pedina di quel piano. Non suona plausibile, certo: un personaggio così stona con la nostra realtà fatta di complottismo e reazioni passivo-aggressive.
Lei accusa il Dottore ad alta voce, certo – proprio come è stata capace di sparargli. Ma in quell’affermazione, come nel suo gesto violento, non c’è rabbia, non c’è rancore – solo la determinazione di salvare il suo pianeta.
Bill Potts è troppo incredibile per essere vera: sarà per questo che il Dottore, felice e fiero di averla come studentessa e amica, la considera “una fra sette miliardi”?

Ancora qualche parola su Missy. A parte il fatto che al suo posto, prima di un pony o di un acceleratore di particelle, io avrei chiesto un balsamo ricostituente per capelli sfibrati, che cosa si agita realmente nel suo cervello di Signora del Tempo? Non è riuscita a portare il Dottore dalla sua parte regalandogli un esercito o trasformandolo in una leggendaria minaccia, ma forse lo conquisterà in un modo più subdolo, facendo leva ancora una volta sulla sua natura “vanesia, arrogante e sentimentale” che tanto disprezza. O forse stiamo accusando ingiustamente anche lei e si rivelerà un’alleata preziosa contro un avversario più temibile dei Monks (e ci vuole poco, ammettiamolo)? È ancora presto per supporre, e troppo tardi per non desiderare di goderci gli ultimi episodi dell’era Capaldi con la mente sgombra e il cuore a mille, liberi di lasciarci sorprendere.

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